La liturgia che, secondo il Concilio Vaticano II (S. C. 7), “E’ considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo …In essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra”. La stessa costituzione conciliare, al numero 10, definisce la liturgia come “Il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia”.
Consapevole che la liturgia è al cuore della Chiesa, la stessa impegna tutte le sue energie affinchè il santo popolo di Dio possa attingere a questa fonte tutto quanto il Signore Risorto vorrà donargli.
La liturgia lungo i secoli e nelle differenti culture che sono entrate a far parte del volto della Chiesa ha assunto varie sfaccettature che sono andate ad esprimersi nella differenziazione delle ritualità e hanno costituito ciò che oggi appare come un percorso storico di grande importanza (non essendo la storia della liturgia, in questo contesto, rilevante, ci limitiamo a sottolinearne la sua importanza).
La liturgia quindi ha un suo percorso storico ed in seno ad esso hanno una loro storia i libri liturgici.
Il Messale (che oggi ci viene presentato ed offerto nella sua edizione italiana) fa la sua apparizione come libro a sé stante o quasi intorno al decimo secolo e la sua progressione editoriale nei vari contesti culturali, antropologici e sociali è tutt’ora in corso.
La liturgia, secondo gli insegnamenti della Chiesa che nell’ultimo Concilio sono stati ribaditi, accoglie tutto il positivo dell’umano e lo eleva a culto; per questo è importante tener presente il progresso dei popoli in tutte le sue sfaccettature.
In seguito agli stimoli e provocazioni ricevuti dall’assise conciliare, il 7 marzo 1965 il papa Paolo VI per la prima volta celebra la messa usando la lingua italiana e per questo esordio sceglie non la basilica vaticana ma una parrocchia dando così un segnale grande sull’importanza che le comunità convocate comprendano e comprendendo vivano ciò che celebrano.
Da quel 7 marzo in poi l’esigenza che la messa celebrata in italiano fosse sempre più rispondente a quanto vissuto nel quotidiano e soprattutto la domenica è stata sempre più forte e ha portato a percorsi che sono giunti al messale che ci viene consegnato dalla Conferenza Episcopale Italiana affinchè le nostre assemblee possano celebrare il mistero di Cristo con un linguaggio coerente con la vita.
In questo nostro incontro prenderemo in considerazione soprattutto quei cambiamenti che vedono coinvolta più direttamente l’intera assemblea (se avremo ancora tempo cercheremo di analizzare anche gli altri cambiamenti).
Un atto di affetto e stima dei vescovi per la nostra Italia è dato dal riconoscere che la lingua italiana non è una lingua morta ma viva e in continua evoluzione e per questo, anche la lingua italiana usata per il culto necessita di trovare nuove forme ed espressione.
In un tempo come il nostro, ne quale, la nostra lingua sia scritta che parlata subisce continue aggressioni, riconoscerle la bellezza e l’unicità indiscutibili e porla al centro della vita della Chiesa è un gesto altissimo di affetto e di stima.
Il primo cambiamento che coinvolge il dire dell’assemblea, lo troviamo nell’atto penitenziale quando usiamo la sua forma più estesa: “Confesso a Dio onnipotente …” che tutti coloro che partecipano alle assemblee liturgiche conoscono a memoria alla formula precedente: “E a voi fratelli … e supplico la Beata Vergine Maria … e voi fratelli”, in ambo i casi si diremo: “fratelli e sorelle”.
A uno sguardo superficiale questa aggiunta può sembrare un’affettazione e quasi il prezzo da pagare a una società che si abbarbica sui distinguo ma in verità non è così.
Il cammino della Chiesa sul riconoscimento del ruolo della donna al suo interno, in epoca moderna, parte dal magistero del papa Pio XII e prosegue passando per Paolo VI, trova un forte slancio in Giovanni Paolo II e in Benedetto XVI fino alle affermazioni di papa Francesco. Tutto questo percorso di presa di coscienza sul ruolo fondamentale che la donna ha nella Chiesa fa si che nel culto la donna non può essere né sottintesa e tanto meno data per scontata. Nell’evoluzione della lingua italiana, che negli ultimi tempi ha visto esprimere sia nel linguaggio scritto che in quella parlata l’esigenza di una maggiore visibilità del genio femminile e una necessità di vedersi riconosciuta la sua presenza attiva nel mondo, anche il linguaggio liturgico si evolve e accoglie come dato positiva la presenza del femminile nelle sue espressioni cultuali.
Inserire il termine “sorelle” nell’atto penitenziale potrebbe aiutarci a riflettere su quanto peccato si consuma a danno delle donne e si concretizza nella violenza verbale, fisica e psicologica su di loro.
Il secondo cambiamento è immediatamente successivo all’atto penitenziale: diremo preferibilmente Kyrie Eleison invece di Signore pietà privilegiando la forma greca più ricorrente nei testi biblici in lingua originale.
Una prima notazione porta a sottolineare che nella liturgia ci sono alcuni termini che non sono mai stati tradotti e che sono entrati a far parte del linguaggio non liturgico e nemmeno cultuale:
Amen (unico termine del culto usto sia nei riti cristiani che ebraici e islamici) e Alleluja per esempio sono termini accolti da un tempo immemorabili e che continuiamo a ripetere allo stesso modo.
Con Kyrie Eleison venivano acclamati gli eroi che tornavano vincitori dalle guerre (spesso in assemblee come questo, provo a far tornare alla memoria degli astanti la scena del film Ben – Hur nel quali si vede e si sente il popolo acclamare Kyrie Eleison all’imperatore che rientra vincitore a Roma).
Posto dopo l’atto penitenziale, Kyrie Eleison dice la fede del popolo in Cristo Risorto vincitore del peccato sia personale che comunitario. La dimensione cristologica dell’acclamazione è data dalla seconda parte della stessa nella quale si invoca: Christe Eleison.
Un terzo cambiamento lo troviamo subito dopo nell’inno Gloria a Dio nell’alto dei cieli… nel quale in modo più coerente con il testo biblico, “pace in terra agli uomini di buona volontà” cambia con “pace in terra a gli uomini amati dal Signore”.
Il “Gloria” è un salmo non biblico che, partendo dalle parole degli angeli che a Betlemme, secondo il vangelo di S. Luca, acclamano: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini amati dal Signore” ( Lc 2,14), si evolve in un inno di lode e benedizione al Padre e al Figlio nello Spirito Santo.
In questo modo i riti di introduzione nella liturgia della Chiesa Cattolica di rito latino nella sua espressione cultuale, assurge ad inno di lode vissuta e celebrata che introduce alla liturgia della Parola.
La nuova traduzione della Bibbia a cura della Conferenza Episcopale Italiana (2008) ha già dato alla Chiesa italiana da qualche anno i nuovi lezionari dai quali la Parola di Dio nelle assemblee liturgiche viene proclamata e venerata.
Il desiderio della Chiesa che la nostra preghiera sia sempre più coerente con la Parola di Dio che lei proclama, credo che vada accolto come il tentativo della Chiesa stessa di trasmettere la stessa Parola di Dio nel modo in cui l’ha ricevuta e dando alla Parola di Dio scritta la sua dimensione più profonda che è la preghiera.
Il quarto cambiamento è quello del quale si è più parlato dentro e fuori la Chiesa.
L’unica preghiera che Gesù ci ha insegnato e che è fondamentale nella vita del cristiano è la preghiera del Padre Nostro.
Questa preghiera è forse l’unica preghiera verbale che viene vissuta sia nella liturgia che nelle altre espressioni del culto cristiano per questo e soprattutto per esserci stata consegnata direttamente da Gesù, il Padre Nostro è una preghiera alla quale noi cristiani di tutte le confessioni siamo particolarmente legati.
Nel vangelo, questa preghiera ci viene consegnata in due formulazioni: Matteo 6,12 (forse il più antico) e Lc 11, 4. La Chiesa, nella liturgia, ha preferito da sempre la versione di Matteo nella quale si parla di “debiti” e non di “peccati” consapevole che, mentre il peccato chiude il rapporto con Dio, nel debito anche se per una dimensione negativa, il rapporto permane (la riflessione biblica, spirituale e antropologica su questa preghiera ha prodotto un’abbondante mole editoriale che non può essere in nessun modo riassunto in questo contesto).
In questa preghiera avremo due cambiamenti.
Il primo di tipo più linguistico: “rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo”.
Il vocabolario Treccani alla voce come, riporta: “avv. e cong…. Avv. di maniera. 1 Introduce per lo più un termine di paragone o una proposizione modale esprimendo ora un rapporto di somiglianza ora un rapporto di identità. … 2 Avv. interrogativo ed è usato in proposizioni dirette o indirette…3 Cong. Temporale… 4 Cong. Dichiarativa, col valore di che…. Come s. m., il modo, la maniera, il mezzo (si è riassunto per necessità).
Tenendo presente il vocabolario della lingua italiana, dobbiamo anche considerare che nella Bibbia, soprattutto negli scritti di S. Giovanni Evangelista, “come” può essere un termine di fondazione: fondandosi su… : “Come il Padre ha amato me” (Gv 15, 9 – 17), per esempio, secondo alcuni esegeti del sacro testo, andrebbe compreso : “Fondandomi sull’amore che il Padre ha per me, vi ho amati dello stesso amore”.
Considerando, con tutte le accortezze del caso (il Padre Nostro non è un testo giovanneo), l’accezione biblica del termine “come” potremmo intendere la richiesta della remissione del debito ai fratelli e alle sorelle come dimensione che scaturisce dal nostro fondare la vita sulla vita di Dio e sul suo amore.
Sempre il vocabolario Treccani, così spiega il termine “anche:” etimo incerto. 1 particella aggiuntiva che serve per riferire a una persona o cosa o nozione quanto già si è affermato, o si sottintende, d’altre persone o cose o nozioni… Talora serve per rafforzare un’affermazione… Per affermare una possibilità, eventualità.. 2 ant. O letter. Con valore avv…. 3 cong. Composta con valore concessivo ipotetico… (anche qui si è riassunto).
“Anche”, inserito nel Padre Nostro sembra essere più coerente con il testo biblico e contemporaneamente aiuta nell’uso linguistico a rafforzare il nostro desiderio di fondarci sull’azione di Dio per essere più forti nell’opera della remissione del debito altrui nei nostri confronti.
Dio in Gesù Cristo, nel mistero dell’Incarnazione, assume una specifica natura umana calandosi cosi in una cultura, in un agire sociale, quello ebraico che bisogna tenere sempre presente per comprendere i vangeli; così il pensiero ebraico nel giorno annuale dell’espiazione “Yom Kippur” vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio mentre “ per quelli contro le persone, Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è riappacificato con il proprio fratello. Potrebbe essere questo dello Yom Kippur il contesto socio – culturale e religioso quello nel quale Gesù elabora e ci insegna a pregare con questa richiesta al Padre.
L’altro cambiamento interno al Padre Nostro è un po’ più lungo; al posto di “non ci indurre in tentazione” diremo “non abbandonarci alla tentazione”.
Nel Motu Proprio del 09 settembre 2017, papa Francesco auspica: “La comunità liturgica possa arrivare ad uno stile espressivo adatto e congruente alle singole parti, mantenendo l’integrità e l’accurata fedeltà, specialmente nel tradurre alcuni testi di maggiore importanza in ciascun libro liturgico”. Dopo questo auspicio, il papa, nello stesso Motu Proprio, spiega che: “Fine delle traduzioni dei testi liturgici e dei testi biblici, per la liturgia della parola, è comunicare ai fedeli la parola di salvezza in obbedienza alla fede ed esprimere la preghiera della Chiesa al Signore. A tale scopo bisogna fedelmente comunicare ad un determinato popolo, tramite la sua propria lingua, ciò che la Chiesa ha inteso comunicare ad un altro per mezzo della lingua latina. Sebbene la fedeltà non sempre possa essere giudicata da parole singole ma debba esserlo nel contesto di tutto l’atto della comunicazione e secondo il proprio genio letterario, tuttavia alcuni termini peculiari vanno considerati anche nel contesto dell’integra fede cattolica, poiché ogni traduzione dei testi liturgici deve essere congruente con la sana dottrina” è tutto in queste affermazioni l’esigenza di esprimere con nuove parole quanto già ci portavamo nel cuore dicendo non ci indurre in tentazione. Diverse volte il papa è intervenuto pronunciandosi su questa parte della preghiera del Signore e sulla sua traduzione in italiano.
La ricca produzione letteraria in tutti i tempi della Chiesa e in tutte le dimensioni delle letterature di tutti i popoli e di tutte le lingue che vivono il cristianesimo, se consultata può aiutare a comprendere e pregare sempre meglio e di più con questa preghiera e anche a capire quanto fosse necessaria ed urgente riportare questa parte della preghiera domenicale, nella traduzione italiana per il culto, nell’alveo della sua origine, nella comprensione delle intenzione con le quali è scaturita dal Cuore di Gesù.
Una breve notazione su tre punti che riguardano ancora il nuovo Messale Romano Italiano che entrerà in uso per le diocesi di Abruzzo e Molise a partire dalla prossima prima domenica di Avvento (29 novembre 2020).
1 La professione di fede che si esprime in piedi con il “Credo”.
L’Assemblea convocata e orante conosce già le varie modalità della professione di fede che ordinariamente è fatta attraverso il “simbolo niceno – costantinopolitano” ad esso è affiancato la forma interrogatoria particolarmente raccomandata nel Tempo di Pasqua e sempre prevista nel rito del Battesimo e della Confermazione.
Già l’attuale messale a queste due possibilità suggeriva anche l’uso, soprattutto in alcuni periodi dell’Anno Liturgico “del simbolo detto degli Apostolo” (M.R. p.306). Il nuovo Messale ribadisce questa possibilità sottolineando che esso è il “Simbolo Battesimale della Chiesa romana detto anche’degli Apostoli’ “ (nuovo M.R. p. 323).
2 Nello “scambio” della pace, il presidente dell’Assemblea non dirà più “scambiatevi un segno di pace” ma “Scambiatevi il dono della pace” (sono previste anche altre possibilità per invitare al dono della pace).
La nuova asserzione è più coerente con il testo in latino.
La pace che annunciamo nella liturgia non è un segno ma il dono reciproco di Gesù che i testi biblici proclamano “Pace” e che nell’invito al dono della pace, chi presiede la celebrazione ha invocato come citando il vangelo della Pasqua come colui che dona la pace e l’unità senza guardare ai peccati ma alla fede della Chiesa.
Il rito della pace nella celebrazione eucaristica ha una storia lunga e bella sempre incentrata su Gesù.
Il 7 giugno 2014 Papa Francesco ha approvato e confermato quanto contenuto nella Lettera Circolare “L’ESPRESSIONE RITUALE DEL DONO DELLA PACE NELLA MESSA”, preparata dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, e ne ha disposto la pubblicazione.
Con la Lettera Circolare, la Congregazione ha inteso ristabilire le linee guida dello scambio della pace, come previsto sin dalle origini dal Messale Romano, senza introdurre cambi strutturali. Tale esigenza è nata da un lato, dalla necessità di mettere in luce il vero significato del rito, compiendolo con senso religioso e sobrietà; dall’altro, di moderare questo gesto liturgico, che può assumere espressioni eccessive, suscitando qualche confusione nell’assemblea proprio prima della Comunione. «E’ bene ricordare come non tolga nulla all’alto valore del gesto la sobrietà necessaria a mantenere un clima adatto alla celebrazione, per esempio facendo in modo di limitare lo scambio della pace a chi sta più vicino». (BENEDETTO XVI, Esort. Apost., Sacramentum Caritatis, n. 49: AAS 99 (2007) 143).
Nella Messa lo scambio della pace si svolge tra il Padre Nostro e la frazione del pane, durante la quale si implora l’Agnello di Dio perché ci doni la sua pace. Si tratta di un gesto che ha la funzione di manifestare pace, comunione e carità.
Ma come si possono tradurre in concreto per gli “addetti ai lavori” e per i fedeli cattolici gli orientamenti dati nella Lettera per il corretto svolgimento del rito della pace nella celebrazione della Messa?
A tal proposito si trovano nel documento le seguenti disposizioni pratiche:
– si può omettere e talora deve essere omesso lo scambio di pace quando si prevede che esso non si svolgerà adeguatamente o si ritiene pedagogicamente sensato non realizzarlo in determinate occasioni per evitare che i fedeli si scambino “meccanicamente” il segno della pace;
– le Conferenze dei Vescovi possono considerare se non sia il caso di cambiare il modo di darsi la pace in occasione della pubblicazione della traduzione della terza edizione del Messale Romano o quando vi saranno nuove edizioni del medesimo Messale;
– sarà necessario che nel momento dello scambio della pace si evitino definitivamente alcuni abusi come:
• L’introduzione di un “canto per la pace”, inesistente nel Rito romano.
• Lo spostamento dei fedeli dal loro posto per scambiarsi il segno della pace tra loro.
• L’allontanamento del sacerdote dall’altare per dare la pace a qualche fedele.
• Che in alcune circostanze, come la solennità di Pasqua e di Natale, o durante le celebrazioni rituali,
come il Battesimo, la Prima Comunione, la Confermazione, il Matrimonio, le sacre Ordinazioni, le Professioni religiose e le Esequie, lo scambio della pace sia occasione per esprimere congratulazioni, auguri o condoglianze tra i presenti.
3 L’ultima notazione riguarda l’Agnus Dei.
Nel Messa secondo il rito romano, dopo il dono della pace, l’assemblea prega dicendo oppure cantando l’invocazione all’ Agnello di Dio. Anche questo è un antico rito introdotto nella messa dal papa Sergio I (fu papa dal 847 all’ 844), introdusse questo rito nella messa (non è certa l’origine di questo papa che secondo alcuni studiosi sembra sia siriaco e quindi avrebbe inserito nel rito romano alcuni riti e alcune feste di origine siriaca).
All’acclamazione dei presenti, chi presiede l’assemblea mostra elevandola l’ostia consacrata e spezzata e unendo due testi biblici afferma la fede della Chiesa sul mistero eucaristico.
L’inversione dei testi biblici, confronto alla modalità attuale, oltre a mostrare una maggiore coerenza con il rito in lingua latina, dona alle parole una grande dimensione escatologica e chiede ai fedeli che contemplano il mistero di Cristo elevato nell’ostia di fissare lo sguardo del cuore e della fede all’Agnello che siede sul trono secondo il libro dell’Apocalisse.
“Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1, 29 – 30)
“Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello” (Ap 19, 9)
I due testi nella loro nuova consecuzione ci aiutano a capire che non siamo beati perché siamo seduti nei banchi delle nostre chiese; ma saremo beati se potremo partecipare nella Gerusalemme Celeste alla Cena dell’Agnello.
La risposta dei fedeli : “O Signore non sono degno…” non cambia.
Mi sembra importante menzionare (almeno come informazione) la nuova collocazione del rigo musicale nella messa secondo il nuovo messale e che, nell’intenzione dei vescovi italiani, dovrebbe spronare di più sia i presbiteri che le comunità a servirsi del canto per meglio pregare ricordando l’affermazione di S. Agostino: “Chi canta prega due volte”.
Altri cambiamenti nella forma verbale del rito nel nuovo Messale Romano Italiano sono presenti e sono abbondanti ma quelli analizzati riguardano più direttamente l’Assemblea Celebrante.
Sugli altri cambiamenti potremo sentirci in altre occasione per non approfittare della vostra attenzione.
Nel nuovo messale si può senz’altro rilevare anche qualche criticità, ma questa operazione la lasciamo a coloro che sono già pronti con il dito puntato ad evidenziare solo ciò che non va bene. Noi concludiamo questo nostro incontro ricordando che come prega la Chiesa nell’ orazione colletta della seconda domenica del tempo ordinario anno B: “Dio che riveli i segni della tua presenza nella Chiesa, nella liturgia e nei fratelli, fa che non lasciamo andare a vuoto nessuna tua parola, per riconoscere il tuo progetto di salvezza e divenire apostoli e profeti del tuo regno”.
Grazie per la pazienza e buona sera
Don Nicola Mattia