Presentata ai media la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita: la cura “non può ridursi al prendersi cura del malato in una prospettiva medica o psicologica”, ma deve estendersi all’“avere cura di tutta la persona”
Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano
“Un nuovo organico pronunciamento della Santa Sede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita è parso opportuno e necessario in relazione alla situazione odierna, caratterizzata da un contesto legislativo civile internazionale sempre più permissivo a proposito dell’eutanasia, del suicidio assistito e delle disposizioni sul fine vita”. Lo ha affermato il cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, presentando in Sala Stampa vaticana la Lettera Samaritanus bonus. La testimonianza cristiana – ha aggiunto il porporato – mostra come “la speranza sia sempre possibile, anche quando la vita è avvolta e appesantita dalla cultura dello scarto”. “E siamo tutti chiamati ad offrire il nostro specifico contributo, perché – come ha detto Papa Francesco – a essere in gioco sono la dignità della vita umana e la dignità della vocazione medica”.
Sofferenza, speranza e testimonianza
Durante la conferenza stampa, prendendo spunto dalla Lettera Samaritanus bonus, è stato anche sottolineato che il termine “inguaribile non è mai sinonimo di incurabile”. È importante mettere bene a fuoco, ha detto monsignor Giacomo Morandi, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, che “il dolore è esistenzialmente sopportabile soltanto laddove c’è una speranza affidabile”. E una speranza così può essere comunicata soltanto laddove c’è una coralità di presenza che spera attorno al malato sofferente”. “È la testimonianza, umile ma certa, della vicinanza di Dio alla nostra vita, vicinanza che ci abilita ad accompagnare con speranza affidabile, anche nella prova suprema della sofferenza e della morte”.
Al centro l’uomo nella sua integralità
La professoressa Gabriella Gambino, sottosegretario del Dicastero per i Laici la Famiglia e la Vita, ha approfondito tre aspetti del documento redatto dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Il primo è la condizione umana da cui il testo prende le mosse, “la vulnerabilità di ogni essere umano”. La cura “non può ridursi al prendersi cura del malato in una prospettiva medica o psicologica”, ma deve estendersi all’“avere cura di tutta la persona”. Il secondo aspetto riguarda il principio per cui l’avere cura dell’altro in stato di bisogno “non è solo una questione etica di solidarietà sociale”. È molto di più: “è il dovere giuridico, ha affermato la dottoressa Gambino, di riconoscere ad ogni persona ciò che le spetta, in virtù della propria vulnerabilità”. Il terzo aspetto su cui si è soffermato il sottosegretario del Dicastero per i Laici la Famiglia e la Vita è “il valore di ogni persona in qualunque fase e condizione critica dell’esistenza”.
Prendersi cura del malato e di chi lo accudisce
Il professor Adriano Pessina, membro del Direttivo della Pontificia Accademia per la Vita, ha infine preso in esame alcune delle problematiche sollevate dalla Samaritanus bonus in rapporto alle istanze odierne dell’antropologia. In un periodo storico in cui sembra più facile confidare nella scienza e nella tecnica che negli uomini, la Lettera “pone al centro, con chiarezza, l’importanza delle relazioni umane nelle situazioni critiche della malattia e nelle fasi terminali della vita”. “La solitudine del malato – ha aggiunto – è anche spesso la solitudine di chi si prende cura di lui”. Una comunità sanante – concetto introdotto dalla Samaritanus Bonus – dovrebbe esprimere “la duplice dimensione del prendersi cura sia del malato sia di chi lo accudisce”. Se il Covid-19 – ha concluso il professor Pessina – ci ha ricordato la nostra fragilità, ci ha pure obbligato “a riconfigurare i legami e a ‘vegliare’ sull’altro, senza fraintendimenti”. Ma soprattutto a fare come Dio: ad avere ‘compassione’ poiché “nessuno nella sua sofferenza ci è mai estraneo”.