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martedì, 19 Novembre 2024
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L’amore per Dio non è una gara di emozioni

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XIII Domenica Tempo Ordinario

L’amore per Dio non è una gara di emozioni

(2Re 4,8-11.14-16°; Romani 6,3-4.8-11; Matteo 10,37-42)

Ascoltiamo il Vangelo:

“In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me.  Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa»”. 

Sembra una richiesta diseducativa quella di Gesù oltre che non ossequiosa proprio di un comandamento, il quarto: “onora il padre e la madre”, e Gesù chiede di non amarli più di lui. Ma la sua non è una gara del cuore e delle emozioni, non è un concorso dell’affettività. Nelle sue parole c’è una verità che san Benedetto condensò molto bene nella famosa espressione contenuta nella sua regola: “nulla, assolutamente, anteponiamo a Cristo”.

Porre al vertice della nostra vita la figura di Cristo non significa che lui, essendo accentratore, esclude gli altri, ma presso di lui impariamo l’arte d’amare, di relazionarci, di approdare agli altri con sguardo e intensità nuovi. Il calore di una famiglia è sacro e l’amore che circola in essa ne è il sangue che nutre la vita relazionale, nessuno mai può violentare o spezzare questi vincoli che sono preziosi e imprescindibili. Ma in Cristo tutto questo non si spegne ma si amplifica ecco perché lui deve essere il punto da cui parte tutto irrobustito da ciò che s’impara nel contatto e nell’intimità con lui. Nel testo sacro per narrare, descrivere l’amore di Dio per il suo popolo viene utilizzato come immagine proprio l’amore sponsale essendo quello più descrittivo e facilmente comprensibile. Amare la famiglia, nutrirla, servirla con il linguaggio e i sentimenti di Dio stesso.

Le esigenze dell’amore sono tante, innumerevoli, addirittura troppo esigenti. Per amare davvero occorre perdere se stessi per donarsi agli altri. Quasi travasare la mia vita in quella tua a cerchi concentrici, inclusivi, aggreganti, che si abbracciano. Noi possediamo solo quello che avremo donato agli altri. Il nostro amore per essere valorizzato, esaltato deve essere metabolizzato, digerito, da chi lo riceve da noi. Il primo modo di rivelare la propria capacità di amare è l’accoglienza. Quella che spezza il muro dell’omertà, del sospetto, del pregiudizio, quella che si dona per sconfiggere l’indifferenza. La globalizzazione dell’indifferenza deve trasformarsi in globalizzazione dell’inclusione, della valorizzazione dell’altro, della sua diversità che diventa ricchezza complementare alla mia. Nel mare dell’indifferenza del mondo contemporaneo occorre che la chiesa, ogni battezzato siano isole che fanno approdare, che sanno accogliere, condividere, valorizzare.

Il vangelo ci assicura che se avremo “dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa»”. La freschezza di quest’acqua non è data dalla bassa temperatura del frigo da cui si preleva ma dalla generosità con cui si dona, dalla delicatezza con cui si accompagna il gesto e soprattutto dal peso dall’intensità partecipativa con cui si offre. Ecco perché Gesù chiede che nulla anteponiamo a lui perché lui ci convoca a se per destinarci agli altri, per indirizzarci presso le debolezze e le fragilità che lui più di noi conosce e vuole soccorrere, ma con le nostre mani e col nostro cuore. Dio accarezza sempre l’uomo bisognoso ma utilizza noi, come strumenti del suo amore.

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