Parrocchia di San Timoteo-Termoli, 8 maggio 2019
At 8,1b-8; Sal 65; Gv 6,35-40
1° giorno del triduo: 1Tm 1,18-20
Carissimi fratelli e sorelle,
iniziamo con questa celebrazione il triduo in preparazione alla festa di San Timoteo, compatrono della nostra Chiesa diocesana e di questa città e titolare di questa comunità Parrocchiale.
Ringrazio il parroco, don Benito, per l’invito che mi ha fatto a presiedere per voi e con voi questa Eucaristia, e ringrazio ciascuno di voi per la vostra accoglienza.
La Parola che è stata scelta per questa prima sera del triduo è tratta dal primo capitolo della Prima Lettera di Paolo a Timoteo. Sono appena tre versetti, ma molto significativi. Leggiamoli insieme:
«Questo è l’ordine che ti do, figlio mio Timoteo, in accordo con le profezie già fatte su di te, perché, fondato su di esse, tu combatta la buona battaglia, conservando la fede e una buona coscienza, Alcuni, infatti, avendola rinnegata, hanno fatto naufragio nella fede; fra questi Imeneo e Alessandro, che ho consegnato a Satana perché imparino a non bestemmiare» (1Tm 1,18-20).
Il tono che Paolo usa in questo passo, ma anche il contenuto che questi versetti veicolano, possono apparire, a una prima lettura superficiale, molto duri ed esigenti.
Già gli antichi maestri di Israele affermavano che «la Scrittura si spiega con la Scrittura»: un principio ermeneutico biblico, questo, che riprenderanno anche i Padri della Chiesa – pensiamo, ad esempio, a quei grandi interpreti della Scrittura che sono personaggi quali Origene o Agostino.
Anche noi, stasera, per tentare umilmente di comprendere un po’ questi versetti di Paolo a Timoteo, vogliamo ricorrere allo stesso metodo: interpretarli alla luce di altri passi della Scrittura, in particolare alla luce della Parola che l’odierna liturgia ci ha consegnato nelle letture che sono state pocanzi proclamate.
Vediamo innanzitutto il contesto in cui è collocato questo passo della lettera di Paolo a Timoteo. È la prima volta che Paolo scrive a Timoteo: a colui che, cioè, lo stesso Paolo definisce suo «fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo» (1Ts 3,2), e suo «figlio vero nella fede» (1Tm 1,2). Emergono subito ai nostri occhi due termini: collaboratore e figlio. Il rapporto che c’è tra Paolo e Timoteo è al contempo quello della paternità e figliolanza e quello della fraternità e della collaborazione in Cristo. Nel descrivere questo rapporto, il Card. Carlo Maria Martini ha suggerito di vedere nelle lettere di Paolo a Timoteo l’insegnamento che l’apostolo anziano (Paolo), fa al giovane discepolo (Timoteo): quasi una consegna, un passaggio di testimone fra due generazioni.
È la prima volta, dicevo, che Paolo scrive a Timoteo da quando le loro strade apostoliche si sono separate: dopo aver affrontato insieme alcuni viaggi per l’annuncio del Vangelo, infatti, ora Paolo si è dovuto separare dal suo fedele collaboratore per lasciare Timoteo nella nascente comunità di Efeso:
«ti raccomandai di rimanere a Efeso – gli scrive all’inizio della lettera – perché tu ordinassi a taluni di non insegnare dottrine diverse e di non aderire a favole e a genealogie interminabili, le quali sono più adatte a vane discussioni che non al disegno di Dio, che si attua nella fede. Lo scopo del comando – prosegue Paolo – è però la carità, che nasce da un cuore puro, da una buona conoscenza e da una fede sincera» (1Tm 1,3-5).
Cosa era successo nella comunità di Efeso? Erano iniziate a sorgere e a circolare fra i cristiani quelle che possiamo definire “eresie”, ossia interpretazioni diverse dal Vangelo di Gesù Cristo, cioè diverse da quella “sana dottrina” e da quel “deposito della fede” cui Paolo fa costante riferimento nei suoi scritti. Alcuni membri della comunità si erano addirittura “perduti”, avevano fatto “naufragio nella fede” – dicono, con un’immagine plastica molto eloquente, i nostri versetti – per essere andati dietro queste false dottrine ed aver abbandonato proprio la sana dottrina.
E qual è questa sana dottrina di cui qui si parla? È «la fede che si attua nella carità» (Gal 5,6): tutto il contenuto del Vangelo, del quale gli apostoli quali Paolo e Timoteo si fanno annunciatori, può infatti essere riassunto – lo sappiamo – nel solo comando dell’amore reciproco fra i discepoli. Tutto ciò che disattende questo, disattende in una parola la sana dottrina. Tutta la vita del battezzato, ieri come oggi, nella chiesa di Efeso come in quella di Termoli-Larino, deve avere come fine quest’unica tensione: la carità.
Paolo vuole ricordarlo con forza a Timoteo e lo incoraggia a combattere la “buona battaglia” della fede, la buona battaglia della carità, potremmo dire. La carità – lo sappiamo, perché lo sperimentiamo continuamente sulla nostra pelle – è esigente, richiede uno sforzo continuo, una vera e propria battaglia: volerci bene, insomma, non è facile! Amarci con quell’amore che è da Dio – e che è Dio stesso – ci richiede molto spesso uno sforzo, un vero e proprio “combattimento” contro noi stessi, contro il nostro egoismo, il nostro narcisismo e il nostro tornaconto personale.
E non sempre ci riusciamo. Spesso anche noi falliamo, facciamo “naufragio” nell’amore e ci ritroviamo con la barca della nostra vita che fa acqua da tutte le parti. Sì, l’amore è un combattimento, spesso violento ed esigente. Non a caso per mostrarci la misura alta dell’amore, quella a cui ogni cristiano è chiamato, Gesù ci ha rimesso la vita! Sì, l’amore è un combattimento esigente. Ma vale la pena: cosa sarebbe infatti, la nostra vita, senza l’amore? Ci pensate?
Le difficoltà che sperimentiamo nell’esercizio dell’amore, però, non devono scoraggiarci. Ci può essere di aiuto lo stesso esempio di Paolo.
La Prima Lettura della Messa di oggi è tratta dal libro degli Atti degli Apostoli, la cui lettura ci accompagna in tutto questo tempo pasquale, presentandoci giorno per giorno come degli affreschi, delle istantanee della prima comunità cristiana, che possono risultare utili anche alla vita della comunità cristiana di oggi.
La scena che gli Atti degli Apostoli ci presentano oggi viene immediatamente dopo il martirio del diacono Stefano, il protomartire: il primo martire del Vangelo, il cui racconto abbiamo letto nella Messa ieri e ieri l’altro. Ricorderete che gli Atti degli Apostoli ci dicono che mentre lapidavano Stefano «i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo» (At 7,58); e poco dopo ci riferiscono che questo «Saulo approvava l’uccisione di Stefano» (At 8,1). Oggi, poi, abbiamo sentito che lo stesso «Saulo cercava intanto di distruggere la Chiesa: entrava nelle case, prendeva uomini e donne e li faceva mettere in carcere» (At 8,3). Vi sembra un atteggiamento di amore cristiano quello qui descritto? Tutt’altro: Saulo approva e partecipa all’uccisione di un cristiano, Stefano, e cospira minacce e stragi contro i discepoli del Signore, contro tutti coloro che – ci dicono ancora gli Atti degli Apostoli – «avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via» (At 9,2), cioè appartenenti alla fede cristiana, alla Via dell’amore inaugurata dalla passione, morte e risurrezione di Gesù.
Sapete chi è questo Saulo, vero?
È lo stesso Paolo che ora scrive a Timoteo i versetti che stiamo meditando. Evidentemente la sua vita è cambiata: ha incontrato il Signore, ha incontrato l’amore vivo e per questo amore ha deciso di spendere la vita. E non solo di spendere la sua vita – fino al martirio – ma anche di aiutare altri, come Timoteo, ad abbracciare con coraggio la Via dell’amore.
Il testo che stiamo meditando, parla poi di alcuni che hanno fatto “naufragio nella fede”, che non ce la fanno cioè a vivere con coerenza la vita cristiana dell’amore. Ne nomina persino due esplicitamente: tali Imeneo e Alessandro. Paolo usa parole fortissime contro di loro: li «ho consegnati a Satana, perché imparino a non bestemmiare» (1Tm 1,20). Con questa immagine forte, l’apostolo sta ricorrendo a un’espressione tecnica per indicare l’estromissione dalla comunità di alcuni membri “perché imparino a non bestemmiare”: cioè perché imparino a non pronunciare più con la loro vita il nome di Dio invano. E lo sappiamo: il nome di Dio rivelatoci da Gesù è Amore. Dio è Amore, ci dice l’apostolo Giovanni. Bestemmiare Dio, allora, è non amare: è rinnegare la “sana dottrina”, il “deposito della fede” che – lo abbiamo detto – ha il suo compendio nel comandamento dell’amore. In una parola: bestemmiamo con la nostra vita quando non amiamo!
Ma ciò che colpisce è che lo stesso Paolo, pochi versetti prima, sempre nella Prima Lettera a Timoteo, ci deve confessare di se stesso: «Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Gesù Cristo Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1Tm 1,12-13). Paolo definisce se stesso un bestemmiatore, al pari di coloro che ha estromesso dalla comunità: una punizione, questa, comunque sempre finalizzata al recupero del peccatore, con lo scopo pedagogico di ricondurlo alla salvezza.
Del resto è proprio quello che è accaduto a Paolo: il Signore gli si è fatto incontro sulla strada del peccato, non certo sulla Via dell’amore. Per assurdo potremmo dire: se Paolo non fosse stato quel bestemmiatore e quel persecutore che è stato prima di incontrare Cristo, non sarebbe neppure quel grande apostolo che è!
Non sempre il male che ci è dato da vivere – da commettere o da subire – è dunque finalizzato alla nostra perdizione: «dove ha abbondato il peccato – ci rassicura ancora Paolo – ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20). Questo è valso per lui, questo può valere anche per noi.
Non scoraggiamoci, dunque, carissimi fratelli e sorelle, se anche noi spesso nella nostra vita facciamo esperienza di naufragio e fallimento, se ci sentiamo incapaci di amare e incapaci di una vita coerentemente cristiana. Non scoraggiamoci se anche a noi spesso capita come a Paolo di «non compiere il bene che vogliamo, ma di fare il male che non vogliamo» (cf. Rm 7,19). Dio ripete anche a ciascuno di noi: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9).
Infatti, il “disegno di Dio” evocato nella prima lettera di Paolo a Timoteo, è quello che esplicita Gesù nel Vangelo di oggi: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato» (Gv 6,39). Gesù è venuto per salvare tutti gli uomini e vuole che nessuno di noi si perda.
Non perdiamo di vista l’essenziale della vita cristiana, non perdiamo di vista l’amore. Paolo, al termine della sua vita dirà proprio al discepolo Timoteo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede…» (2Tm 4,7), «io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore e un violento» (1Tm 1,13). Paolo è cosciente fino alla fine della dualità che lo abita: del bene che vorrebbe fare e che non fa, e del male che non vorrebbe fare eppure fa. E, nonostante ciò, crede alla grazia di Dio che «vuole che tutti gli uomini siano salvi» (1Tm 2,4).
Non lasciamoci dunque scoraggiare dai nostri fallimenti e dalle contraddizioni che ci abitano: non permettiamo ai nostri fallimenti e alle nostre contraddizioni di avere la meglio sulla speranza inaugurata anche per noi dalla Pasqua di Cristo.
Anche a noi stasera, come già a Timoteo, Paolo ci esorta a combattere insieme la “buona battaglia” della fede e dell’amore, a conservare tra noi l’amore reciproco: è questa l’unica via che ci porta a salvezza!
L’apostolo Paolo e il discepolo Timoteo su questa via ci siano compagni e intercessori. Così sia.
don Claudio Cianfaglioni