Un modo per sensibilizzare i giornalisti, presenti per un corso di formazione organizzato dall’Ordine dei giornalisti del Molise, e di rimando la popolazione su come vadano trattati i temi legati al carcere e a chi trascorre un periodo della propria vita in detenzione. La storia di Patrizio e poi quella di Antonio, entrambi ex detenuti, è un po’ quella della struttura stessa, inaugurata nel 2016, che ha ospitato l’incontro. «Costruita con le pietre del vecchio porto di Termoli o di piazza Duomo» ha raccontato don Benito che ha paragonato quelle pietre ai detenuti. «Perché sono considerati anche loro degli scarti».
Invece ciò che può sembrare inutile e senza futuro può avere un avvenire. Come quello di Patrizio, 41 anni, di etnia sinti. La sua è una storia di furti e scippi, quelli che l’hanno portato all’arresto. «Era un 5 maggio, il giorno del mio compleanno. I carabinieri mi aspettavano a casa». Prima a San Vittore, poi a Messina, quindi a Vasto. «In quel carcere mi riempivano di psicofarmaci, stavo sempre a letto, non volevo mangiare».
Per sua fortuna, dopo un incontro con don Benito, è nata la possibilità di una misura alternativa al carcere. «All’inizio qui non parlavo con nessuno, poi ho fatto amicizia e la mia vita è cambiata». Don Benito definisce sbalorditivi i suoi miglioramenti. «Era una persona allettata, con disagi fisici. Oggi ha recuperato autostima, ha una sua dimensione, lavora in maniera normale e scrive un diario ogni giorno. Per me è stato uno scossone».
Intanto da dicembre scorso ha iniziato un percorso di rientro graduale in famiglia. «Da 7 anni sono lontano da casa. A maggio sono stato qualche giorno con la mia famiglia, mi hanno detto di mio fratello che è morto due anni fa». Patrizio è seguito da personale medico ma ha la lucidità necessaria per scandire: «Il carcere non è bello per nessuno, non lo auguro a nessuno. Quando uscirò di qui? Ho fatto il giostraio e il rottamaio e di certo non voglio tornare nella droga. Vorrei mettere su famiglia».
Antonio sa già com’è la vita oltre il carcere e la rieducazione. Originario di Lesina, da tempo ha seguito un percorso che l’ha portato a superare delle dipendenze e ricreare una propria esistenza. Oggi vive a Termoli, è sposato e ha cinque figli.
Si reca ogni giorno all’Iktus, che funge da anello di congiunzione fra la vita di tutti i giorni e il percorso di rieducazione. Il suo ruolo è quello di operatore di comunità. «Sta qui per aiutare loro, è una figura accettata, non viene visto come uno che deve far rispettare le regole» ha spiegato don Benito.
«Nel mio passato c’è la droga, che mi ha portato a compiere dei reati. Ogni volta che uscivo con buoni propositi, poi ricadevo nell’errore. Però l’ultima volta presi contatti con la comunità Il Noce grazie a un amico che era detenuto con me». Da lì la conoscenza con don Benito e dopo la diffidenza iniziale, la svolta decisiva. Tant’è che Antonio ha sposato una delle catechiste conosciute al Noce.
Del suo presente osserva un particolare molto importante. «Sono uscito da 20 anni dalla comunità eppure ancora oggi trovo atteggiamenti di persone che non mi aiutano a cambiare. Sembra quasi che cerchino di farti tornare indietro. Chi mi ha aiutato? Mia moglie, sicuramente».
«Il carcere arriva dove la società ha fallito» ha affermato Rosa La Ginestra, direttrice della casa circondariale di Larino. «Queste sono spesso persone messe ai margini, che non sanno far valere i propri diritti, non sanno scrivere». E da parte sua anche una critica al sistema che dovrebbe favorire la rieducazione ma che non sempre è valido. «C’è un sistema che agevola le misure alternative, ma non il reinserimento. Le opportunità lavorative sono scarse e spesso le proposte sono fasulle». Per questo realtà come Iktus onlus sono ancora più importanti. (sdl)