La croce: palcoscenico sul quale Dio muore d’amore
(Isaia 52,13-53,12; Ebrei 4,14-16;5,7-9; Giovanni 18,1-19,42)
Ascoltiamo il Vangelo:
“… Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto». I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati fecero così. …”
Nella croce di Cristo, Dio, ha convogliato tutta la sua forza scandalosa dell’amore estremo che ha avuto per ogni uomo di tutti i tempi. Non comprendere questa scelta, che ha come punto d’interesse l’uomo stesso, significa professare l’analfabetismo religioso, lasciando digiuno il cuore. Il palcoscenico su cui Dio si è “esibito” è la croce. Mezzo mortifero con cui si puniva chi veniva ritenuto reo di morte a causa di scelte scellerate, offese arrecate, disturbi provocati contro la legge imperante. Su di essa Dio, attraverso la docile collaborazione di Cristo, scrive a caratteri vergati col suo sangue, l’infinito, sconfinato, gratuito e preveniente amore per la storia umana. Dio vittima sacrificale immolata per chi avrebbe dovuto immolare se stesso per lui. Il creatore si sostituisce alla creatura. “Sale sulla croce per essere con me e come me, perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve all’uomo che è in croce. Perché l’amore conosce molti doveri, ma il primo di questi è di essere con l’amato, unito, stretto, incollato a lui, per poi trascinarlo fuori con sé nel mattino di Pasqua”(Ermes Ronchi).
“E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Giovanni 12,32), dove si deve rivolgere il nostro sguardo per essere rapito e concentrato su quello di Cristo crocifisso come lui ci ha promesso? A quale croce dobbiamo guardare se lui non è più presente nella storia? Lui c’è invece! I nostri sguardi, le nostre attenzioni debbono essere convogliate verso i portatori delle croci che oggi sono disseminati nei solchi della società, seppelliti nei silenzi delle case, sfruttate sulle strade del mondo, buttati in mezzo alle guerre, offesi nella loro dignità, privati del necessario lavoro, abbrutiti dall’aggressività della malattia: ecco alcune croci del tempo contemporaneo. Qui i nostri sguardi debbono incrociarsi, le nostre forze debbono essere convogliate per ascoltare, soccorrere, intervenire.
Ma non è tutto. Non basta essere cirenei delle debolezze altrui, mettendo le nostre spalle sotto le croci dei fratelli; è necessario, se vogliamo essere giusti, sconfiggere ed opporci anche a chi è fabbricante delle croci, a chi le impone, dispoticamente, sulle spalle dei più deboli. Fossero anche i Governi, le dittature economiche, l’egoismo trionfante, l’individualismo imperante, il dispotismo straripante. Tutto ciò che offusca la bellezza e la dignità, restituita all’uomo dalla morte di Cristo in croce, è a sua volta una croce imposta ai più deboli, poveri e bisognosi. In essi, ancora oggi c’è la croce del Cristo, su di essi dobbiamo volgere lo sguardo calamitato dalla loro indigenza.
La risposta unilaterale e monotematica di Dio è sempre la stessa: l’amore con cui ci ha amati chiedendoci di imparare ad amare come lui. Solo dissetandoci alla freschezza sorgiva del vero amore anche noi impareremo ad amarci, perché il DNA dell’amore ci chiama ad amare, altrimenti siamo acqua stantia, acqua putrefatta e infetta. Dio invece fa uscire acqua anche dalle rocce, irriga anche i solchi aridi perché dopo la morte c’è sempre la risurrezione e dopo la sconfitta la vittoria. Il sipario del palcoscenico di Dio si chiuderà con la croce e la tomba vuote, ma la vittoria dell’amore che diventa energia nuova, lievito di speranza e grembo di vita inedita.