“…Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Giovanni 4,20). In questa breve, ma intensa provocazione dell’evangelista San Giovanni, autore anche di tre brevissime lettere del Nuovo Testamento, vi è la sintesi per comprendere che “Tu” non è solo un pronome personale, come la grammatica della lingua italiana insegna, ma è anche un altro “Io”, secondo la grammatica di Dio. Un io che debbo amare, incontrare, conoscere e, soprattutto, accogliere, come me stesso. Solo chi ama se stesso, in modo sereno, armonioso ed equilibrato, potrà amare gli altri. “Ama il prossimo tuo, come te stesso”.
E’ nella logica e nella dinamica delle relazioni, che iniziano dal grembo materno, che un genitore ama chi ha generato come un “Tu” accolto come dono e, soprattutto, come persona nuova, prima inesistente, da accogliere ed amare.
Questa è l’aria che in questi giorni si respira, a pieni polmoni, nei padiglioni di Rimini, sede del Meeting per l’amicizia fra i popoli, giunto a metà percorso. Riconoscere nell’altro un bene, dire all’altro che è un bene per me, è la massima espressione relazionale che si possa celebrare nella ferialita della vita. Tutti gli incontri sono importanti, non esistono incontri banali, di seconda caratura, perché quando si incontra una persona si ha a che fare con qualcuno di unico, irripetibile. Perciò non contano gli errori, le sconfitte, le provenienze, le religioni, gli orientamenti sessuali, ma la persona. La sua centralità ed insostituibilità è capace di superare, anzi deve superare, anche le barriere del carcere, della lingua, e di ogni altra differenza sociale, geografica, patrimoniale. Viene prima la persona di ogni altra cosa, anche della religione stessa e dell’amore che di essa è una manifestazione prioritaria. Nulla, e, mai, si può anteporre alla sacralità della dignità della persona umana.
L’altro è un regalo che non ho scelto io ma che posso, se voglio, scegliere perché mi ci avvicino, mi porto presso di lui, faccio mie tutte le sue necessità e precarietà. Diceva domenica il Vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi che presiedeva la santa messa, in un auditorium pieno all’inverosimile, che “il bene ricevuto dagli altri lo dobbiamo scrivere sulla pietra, il bene che doniamo, sulla sabbia”, perché sia prevalente e duraturo il ricordo del bene avuto e non di quello donato. L’amore dimentica ma non si dimentica. Dimentica le offese ricevute, gli oltraggi, gli affronti, le esclusioni, ma non dimentica le attenzioni, le premure e le carezze ricevute. In questo scambio si gioca il ruolo delle relazioni. Quando si indirizza a qualcuno il proprio amore espresso nell’ascolto, nell’accoglienza, nel dono del proprio tempo, no si deve mai indicare il mittente per non avere o sperare qualcosa in cambio. Il “Tu” è un bene a prescindere da me. Se fosse in funzione di me sarebbe strumentalizzazione, sopraffazione, egemonia.
Un uomo vale per il fatto di essere uomo, non perché veste bene, è in ottima salute, è colto, ricco, europeo, bello. Quindi anche il malato, l’ignorante, il povero, il carcerato, l’abbandonato non cessano di essere persone, perciò non debbono essere allontanate o peggio ignorate. Alla famosa domanda di Dio a Caino:”Dov’è Abele, tuo fratello?.” Non dobbiamo rispondere evasivamente:”Non lo so, sono forse io il custode di mio fratello?” (Genesi 4,9). Una tale risposta sarebbe rivelatrice di atteggiamento fratricida. Mi interessi, questo è l’atteggiamento da offrire a chi si incontra e a chi si decide di avvicinare e no, non mi interessa. “Nel volto di ogni persona è impresso il volto del Cristo, qui si trova la radice più profonda della dignità dell’essere umano, da rispettare e tutelare sempre” (Papa Francesco).